Tsvangirai propone un accordo: «A lui un incarico onorifico, io pronto a governare»
JOHANNESBURG — Imperterrito e determinato, incurante delle condanne della comunità internazionale e delle critiche feroci che gli sono state rivolte, Robert Mugabe, candidato unico al ballottaggio per le presidenziali in Zimbabwe e da 28 anni al potere, ieri si è fatto proclamare vincitore con l'85 per cento dei voti. Poche ora prima l'arcivescovo sudafricano, eroe antirazzista e premio Nobel, Desmond Tutu aveva dichiarato: «L'Unione Africana non deve riconoscere l'elezione di Mugabe e invii al più presto una corpo di spedizione di pace in Zimbabwe». «L'atmosfera nel Paese non ha consentito elezioni libere, il voto è truccato» sosteneva il presidente degli osservatori del Parlamento panafricano, Marwich Khmalo, deputato dello Swaziland, proprio mentre Mugabe dichiarava soddisfatto: «Non mi aspettavo una così grande affluenza alle urne e uno scarto così importante».
Il candidato dell'opposizione Morgan Tsvangirai dell'Mdc, che si è ritirato dal ballottaggio per evitare altre violenze, si è detto pronto a governare e a lasciare al suo avversario il ruolo onorifico di presidente, senza alcun potere. Mugabe a distanza gli ha risposto: «Spero si possa aprire un dialogo». Oggi a Sharm el Sheik si apre il vertice dell'Unione Africana. Alcuni leader arrivano agguerriti all'appuntamento come il primo ministro keniota, Raila Odinga, secondo cui «l'invio di truppe può salvare il Paese». L'Ua appare divisa. Pochi leader hanno le credenziali democratiche per condannare la mancanza di democrazia in Zimbabwe. Il presidente del Gabon, Omar Bongo, uomo protetto dai francesi, è al potere da 41 anni, Gheddafi è al timone dalla Libia dal 1969 e Mubarak, che ospita il summit, guida l'Egitto dal 1981. Un quarto dei presidenti sono al potere da più di 20 anni.
Critici soprattutto i Paesi più democratici e liberali, come Kenya, Tanzania, Mozambico, Botswana, Liberia e Senegal. Ma come chiedere di protestare per «l'elezione illegale» di Mugabe al Sudan, il cui regime è accusato di genocidio in Darfur, o all'Eritrea, che ha le galere gonfie di dissidenti, o alla Guinea Equatoriale, governata da una famiglia di plutocrati che considera i pozzi di petrolio proprietà personale? Ci sono leader obbligati al gioco democratico che temono di fare la stessa fine di Mugabe, come l'angolano José Edoardo dos Santos. Nel suo Paese le elezioni sono previste in settembre e lui rischia di perderle. Accetterà un risultato sfavorevole o cercherà di vincere in tutti i modi?
JOHANNESBURG — Imperterrito e determinato, incurante delle condanne della comunità internazionale e delle critiche feroci che gli sono state rivolte, Robert Mugabe, candidato unico al ballottaggio per le presidenziali in Zimbabwe e da 28 anni al potere, ieri si è fatto proclamare vincitore con l'85 per cento dei voti. Poche ora prima l'arcivescovo sudafricano, eroe antirazzista e premio Nobel, Desmond Tutu aveva dichiarato: «L'Unione Africana non deve riconoscere l'elezione di Mugabe e invii al più presto una corpo di spedizione di pace in Zimbabwe». «L'atmosfera nel Paese non ha consentito elezioni libere, il voto è truccato» sosteneva il presidente degli osservatori del Parlamento panafricano, Marwich Khmalo, deputato dello Swaziland, proprio mentre Mugabe dichiarava soddisfatto: «Non mi aspettavo una così grande affluenza alle urne e uno scarto così importante».
Il candidato dell'opposizione Morgan Tsvangirai dell'Mdc, che si è ritirato dal ballottaggio per evitare altre violenze, si è detto pronto a governare e a lasciare al suo avversario il ruolo onorifico di presidente, senza alcun potere. Mugabe a distanza gli ha risposto: «Spero si possa aprire un dialogo». Oggi a Sharm el Sheik si apre il vertice dell'Unione Africana. Alcuni leader arrivano agguerriti all'appuntamento come il primo ministro keniota, Raila Odinga, secondo cui «l'invio di truppe può salvare il Paese». L'Ua appare divisa. Pochi leader hanno le credenziali democratiche per condannare la mancanza di democrazia in Zimbabwe. Il presidente del Gabon, Omar Bongo, uomo protetto dai francesi, è al potere da 41 anni, Gheddafi è al timone dalla Libia dal 1969 e Mubarak, che ospita il summit, guida l'Egitto dal 1981. Un quarto dei presidenti sono al potere da più di 20 anni.
Critici soprattutto i Paesi più democratici e liberali, come Kenya, Tanzania, Mozambico, Botswana, Liberia e Senegal. Ma come chiedere di protestare per «l'elezione illegale» di Mugabe al Sudan, il cui regime è accusato di genocidio in Darfur, o all'Eritrea, che ha le galere gonfie di dissidenti, o alla Guinea Equatoriale, governata da una famiglia di plutocrati che considera i pozzi di petrolio proprietà personale? Ci sono leader obbligati al gioco democratico che temono di fare la stessa fine di Mugabe, come l'angolano José Edoardo dos Santos. Nel suo Paese le elezioni sono previste in settembre e lui rischia di perderle. Accetterà un risultato sfavorevole o cercherà di vincere in tutti i modi?
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