Titolo originale: Inju, la Bęte dans l’ombre
Francia: 2008. Regia di: Barbet Schroeder Genere: Thriller Durata: 105'
Interpreti: Benoît Magimel, Lika Minamoto, Ryo Ishibashi, Maurice
Bénichou, Shun Sugata, Takumi Bando, Toshi Fujiwara, Sean Muramatsug
Sito web: www.inju-lefilm.com
Nelle sale dal: Prossimamente Venezia 2008
Voto: 2
Recensione di: Nicola Picchi
Alex Fayard č un professore della Sorbona che scrive thriller di successo,
alla maniera del misterioso autore nipponico Shundei Oe, a cui ha
dedicato la sua tesi. Invitato in Giappone per promuovere il suo nuovo
libro, Alex s’imbatterŕ nell’irresistibile “geiko” (le geishe di Kyoto)
Tamao, minacciata da un ex amante. E se l’uomo che la perseguita fosse
proprio Shundei Oe?
Dopo le borsette di Prada e Gucci, adesso si comincia a taroccare anche
il cinema. Se ne incarica Barbet Schroeder, regista che, a dire il
vero, non ha mai azzeccato un film che sia uno (a parte, forse,
“Maitresse”) e che si č dedicato negli ultimi anni a documentari su
personaggi poco edificanti come Idi Amin Dada e Jacques Verges,
appagato dall’andar controcorrente come i salmoni. Quello che si
tarocca non č solo l’estetica del cinema nipponico, omaggiato nei primi
cinque minuti (che sono anche gli unici godibili) in cui Schroeder si
diletta a rifare un film giapponese alla Teruo Ishii, ma anche le sue
tematiche peculiari, affrontate con la malagrazia del turista
sprovveduto. In una Kyoto banalissima quanto inesistente, popolata di
seducenti geishe, tra kimono, cerimonie del tč, giardini zen e yakuza
dalle scontate tendenze sadomaso, Schroeder costruisce il suo esile e
farraginoso giocattolo, con compiaciuta spocchia fuori luogo.
Il suo sguardo gronda esotismo d’accatto, neanche fossimo ancora
nell’Ottocento ai bei tempi dei “Voyage en Orient”, e il suo posticcio
trastullo metanarrativo sull’inestricabile intreccio tra arte e vita,
tema che ha quasi sempre condotto ad esiti letali e giŕ obsoleto ai
tempi dei fratelli Lumiére (si fa per dire) frana rovinosamente, tanto
piů che l’incauto regista tenta di contrabbandarlo per fulminante
illuminazione autoriale.
“Inju” sembra, non solo nel tema ma anche nella forma e nella colonna
sonora, un film degli anni ’60, e forse lo č davvero. Erano infatti
anni che al cinema non si apprezzavano battute del calibro di: “Segua
quella macchina”.
L’ironia, se proprio vogliamo vedercela ed ammesso che non si tratti di
comico involontario, non basta perň a salvare quella che č
un’operazioncina supponente ed autoreferenziale, si spera destinata ad
un rapido oblio. L’arroganza di usare come pretesto il romanzo “La
belva nell’ombra” (1928) di Rampo Edogawa, padre del mistery
giapponese, la dice lunga sulla malriposta presunzione di Schroeder,
dato che giŕ il bellissimo “Rampo” (1994) di Rintaro Mayuzumi e
Kazuyoshi Okuyama, faceva uso dei medesimi stratagemmi adottati dallo
sciagurato regista, ma con esiti infinitamente superiori, cosě come
altrettanto riusciti erano il film collettivo “Rampo Noir” del 2005 o
il “Gemini” di Tsukamoto.
Benoit Magimel nella parte di Alex offre una delle peggiori
interpretazioni della sua carriera, oscillando tra lo stupore
catatonico ed un’intensa espressione da cane bastonato, mentre Lika
Minamoto funziona abbastanza bene, e gli appassionati di cinema
asiatico avranno il piacere di ritrovare Ryo Ishibashi nel consueto
ruolo del boss della yakuza, scelta che peraltro non depone a favore
della fantasia di Schroeder anche nel reparto casting. Unica nota
positiva, per chi si accontenta, l’inutilmente bella fotografia di
Luciano Tovoli.
Chiudiamo questa recensione con un accorato appello a Marco Muller: con
tutti i bei film asiatici che hanno circolato quest’anno, era proprio
necessario mettere in concorso quest’oggetto di modernariato? Malgrado
Benjamin, “l’aura” dell’originale č infatti difficilmente
riproducibile.
Francia: 2008. Regia di: Barbet Schroeder Genere: Thriller Durata: 105'
Interpreti: Benoît Magimel, Lika Minamoto, Ryo Ishibashi, Maurice
Bénichou, Shun Sugata, Takumi Bando, Toshi Fujiwara, Sean Muramatsug
Sito web: www.inju-lefilm.com
Nelle sale dal: Prossimamente Venezia 2008
Voto: 2
Recensione di: Nicola Picchi
Alex Fayard č un professore della Sorbona che scrive thriller di successo,
alla maniera del misterioso autore nipponico Shundei Oe, a cui ha
dedicato la sua tesi. Invitato in Giappone per promuovere il suo nuovo
libro, Alex s’imbatterŕ nell’irresistibile “geiko” (le geishe di Kyoto)
Tamao, minacciata da un ex amante. E se l’uomo che la perseguita fosse
proprio Shundei Oe?
Dopo le borsette di Prada e Gucci, adesso si comincia a taroccare anche
il cinema. Se ne incarica Barbet Schroeder, regista che, a dire il
vero, non ha mai azzeccato un film che sia uno (a parte, forse,
“Maitresse”) e che si č dedicato negli ultimi anni a documentari su
personaggi poco edificanti come Idi Amin Dada e Jacques Verges,
appagato dall’andar controcorrente come i salmoni. Quello che si
tarocca non č solo l’estetica del cinema nipponico, omaggiato nei primi
cinque minuti (che sono anche gli unici godibili) in cui Schroeder si
diletta a rifare un film giapponese alla Teruo Ishii, ma anche le sue
tematiche peculiari, affrontate con la malagrazia del turista
sprovveduto. In una Kyoto banalissima quanto inesistente, popolata di
seducenti geishe, tra kimono, cerimonie del tč, giardini zen e yakuza
dalle scontate tendenze sadomaso, Schroeder costruisce il suo esile e
farraginoso giocattolo, con compiaciuta spocchia fuori luogo.
Il suo sguardo gronda esotismo d’accatto, neanche fossimo ancora
nell’Ottocento ai bei tempi dei “Voyage en Orient”, e il suo posticcio
trastullo metanarrativo sull’inestricabile intreccio tra arte e vita,
tema che ha quasi sempre condotto ad esiti letali e giŕ obsoleto ai
tempi dei fratelli Lumiére (si fa per dire) frana rovinosamente, tanto
piů che l’incauto regista tenta di contrabbandarlo per fulminante
illuminazione autoriale.
“Inju” sembra, non solo nel tema ma anche nella forma e nella colonna
sonora, un film degli anni ’60, e forse lo č davvero. Erano infatti
anni che al cinema non si apprezzavano battute del calibro di: “Segua
quella macchina”.
L’ironia, se proprio vogliamo vedercela ed ammesso che non si tratti di
comico involontario, non basta perň a salvare quella che č
un’operazioncina supponente ed autoreferenziale, si spera destinata ad
un rapido oblio. L’arroganza di usare come pretesto il romanzo “La
belva nell’ombra” (1928) di Rampo Edogawa, padre del mistery
giapponese, la dice lunga sulla malriposta presunzione di Schroeder,
dato che giŕ il bellissimo “Rampo” (1994) di Rintaro Mayuzumi e
Kazuyoshi Okuyama, faceva uso dei medesimi stratagemmi adottati dallo
sciagurato regista, ma con esiti infinitamente superiori, cosě come
altrettanto riusciti erano il film collettivo “Rampo Noir” del 2005 o
il “Gemini” di Tsukamoto.
Benoit Magimel nella parte di Alex offre una delle peggiori
interpretazioni della sua carriera, oscillando tra lo stupore
catatonico ed un’intensa espressione da cane bastonato, mentre Lika
Minamoto funziona abbastanza bene, e gli appassionati di cinema
asiatico avranno il piacere di ritrovare Ryo Ishibashi nel consueto
ruolo del boss della yakuza, scelta che peraltro non depone a favore
della fantasia di Schroeder anche nel reparto casting. Unica nota
positiva, per chi si accontenta, l’inutilmente bella fotografia di
Luciano Tovoli.
Chiudiamo questa recensione con un accorato appello a Marco Muller: con
tutti i bei film asiatici che hanno circolato quest’anno, era proprio
necessario mettere in concorso quest’oggetto di modernariato? Malgrado
Benjamin, “l’aura” dell’originale č infatti difficilmente
riproducibile.
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